Sono un dottore di ricerca. Ho trascorso gli anni migliori della mia vita all’università, cercando di riconoscere il talento di persone poco più giovani di me, di indirizzarlo con cura e dedizione. Gli studenti, in cambio, mi hanno sempre gratificato con la loro stima, con un apprezzamento sincero e commovente per il mio lavoro, peraltro retribuito assai di rado.
Tutte balle. Per loro sono solo uno dei tanti “assistenti frustrati perché non scopano”.
Ciò nonostante, li amo. A suggello del mio amore non corrisposto, stilerò per i lettori de l’Amaro una lista ragionata di alcune tipologie di studenti alle prese con un esame universitario. Si parte.
#1 Gli ansiosi
Se dovessi paragonare le categorie degli studenti sotto esame alle popolazioni, gli ansiosi corrisponderebbero senz’altro ai cinesi. Sono tantissimi. Tutti uguali.
Li riconosci subito per la loro indefettibile vocazione al Barocco. Il volto degli ansiosi, un tempo liscio e regolare inno al Rinascimento, si complica improvvisamente, sciorinando con impudicizia un florilegio di eruzioni cutanee su cui domina una preoccupante psoriasi pustolosa. Grumi pulsanti di sangue premono alle porte della cute, strozzando con dita paonazze i loro colli, candidi fino a qualche ora prima. Gli occhi sono segnati da profonde occhiaie verdi. I capelli sembrano cedere sotto il peso di quintali di forfora.
Possono anche iscriversi a corsi di training autogeno per camionisti con bassa autostima, ma non c’è niente da fare: al momento di esporre, balbuzie, amnesie, pensieri parassiti e allucinazioni audio-visive sono sempre in agguato. Fanno una fatica terribile. D’altra parte non dev’essere facile rispondere a una domanda sul trasformazionalismo di Chomsky se nella tua mente c’è Giuliano Ferrara in tutù alle prese con la morte del cigno. Eppure ce la fanno.
Perché gli ansiosi studiano.
Subito dopo l’esame riacquistano le loro vecchie sembianze. Abbandonano il sublime kantiano per tornare nei giardini rassicuranti del bello. Si lasciano alle spalle la bufera con la leggerezza di un sorriso.
Giuliano Ferrara, ahinoi, torna a scrivere sul Foglio.
#2 Gli hopproblemiaccasa
Gli studenti appartenenti a questa tipologia hanno lo sguardo serioso, una cascata di capelli sul volto, gli occhiali appannati e una studiata trascuratezza nel vestire. Ça va sans dire, sono stramaledettamente impreparati. Per questa ragione subito dopo la prima domanda (difficilissima, peraltro: “Mi parli di Dante”) proferiscono con voce tremante la fatidica frase: “Guardi, professore, io ho problemi a casa”.
I problemi si dispongono su una scala di gravità che va dalla morte di Bubi, adorabile siamese di quindici anni, alla strage dell’intero nucleo familiare ad opera di profughi afgani che dal confine si spostavano nell’Iran. In genere non mi lascio impietosire.
Ma anche io ho le mie debolezze, che rispondono ai nomi di empatia, ipocondria e buona disposizione d’animo verso il prossimo. Quelli che hanno i “problemi a casa” lo sanno. Sanno, soprattutto, che il dolore è sempre speculare. Che anche tu hai dei problemi (e magari non hai una casa). Ti conoscono. Hanno un padre in coma da dieci anni. Un bisnonno con il terribile morbo di Stokazov. Una suocera.
Quando mi trovo di fronte a questi studenti e sento che sto per essere sopraffatto dalle loro presunte tragedie, entro in un profondo stato dissociativo e penso a Giancarlo Magalli che canta “Love will tear us apart” dei Joy Division. Questo pensiero mi libera la fronte dai ghiaccioli delle inopinate tempeste della vita. Sento di poter guardare con rinnovata fiducia al mondo. Di poter dire finalmente: “Ci vediamo al prossimo appello.”
#3 I religiosi
I religiosi prima di un esame non ripetono. Pregano.
Li vedi aggirarsi con un rosario in mano tra i corridoi dell’Ateneo, sillabando un’Ave Maria con sprezzatura. Preparati o no, sanno che il loro destino è nelle mani del Signore.
Per loro lo studio non è ricerca, ma custodia, dato che “non vi è progresso, non vi è rivoluzione di evi, nella vicenda del sapere, ma al massimo continua e sublime ricapitolazione”.
I religiosi hanno una sola paura: sembrare superstiziosi. Per questo motivo cercano di camuffare i segni esteriori in cui si manifesta la loro fede. Li sorprendi spesso ad accennare un segno della croce, fingendo in primis un prurito tra le sopracciglia, seguito da un’improvvisa fitta al costato e da un’ostensione molesta delle articolazioni scapolo-omerali che lascia perplessi gli altri studenti (“Questa est la shoulder izquierda, this is la shoulder de lo diable; this est la derecha, pertinet a Dieu”). Il bacio lo rivolgono alla prima ragazza che incrociano e che, scambiandoli per maniaci sessuali, salta l’appello senza troppi rimpianti.
Non saprei fare una generalizzazione sulla preparazione media degli studenti religiosi. So solo che quando sono impreparati portano con sé un braccialetto, uno di quelli con le icone dei santi disposte su grani di legno, che sgranano con preghiere personalizzate. Le preghiere sovrastano le mie domande, dando vita a interrogazioni surreali: “Questa vocale è protrusa o Padre Pio?”
Così non si può andare avanti.
Li rimando all’appello successivo con tre paternostri e sei avemmarie.
To be continued.