Se per T.S. Eliot “Aprile è il più crudele dei mesi”, per me la domenica è il più crudele dei giorni.
E’ il giorno in cui, ancora più vertiginosa, si apre la voragine tra il lavoratore che, giustamente, l’attende per starsene in panciolle, stomaco pieno e testa vuota e lo studente-precario medio, che ha smesso da tempo di aspettarla perché “è il giorno del riposo, non si va a scuola”, ma ancora non può dire sollevato: “Finalmente un po’ di relax dopo una lunga settimana di lavoro”.
Per me, studentessa part-time pensosa ed incline alle facili malinconie, la domenica è consacrata alla paturnia.
E’ il giorno del ripensamento, del “cosa sarei se avessi fatto”.
Questa domanda esistenziale mi attanaglia, fa crollare tutti i buoni propositi, mi riempie di perché e disinnesca i miei però.
Tutto ciò che faccio la domenica è finzione.
La domenica non faccio. Fingo. In realtà penso.
Fingo di studiare, ma penso.
Potrei anche provare a cucinare, ma penso.
Magari leggo un po’, ma in fondo penso!
E la mente non vola tra verdi pascoli o “a guardare le nuvole su un tappeto di fragole” come direbbe Kekko dei Modà, sommo vate delle quindicenni isteriche assetate d’amore.
Il pensiero domenicale è un incubo, una guerra fredda che mi vede immancabilmente sopraffatta, inadatta, schiacciata da un presente impietoso.
E affogo in un cocktail ansiogeno di inquietudine per il tempo che passa, ipocondria e fretta immotivata.
Riemerge feroce quel passato di cui vorrei conservare l’entusiasmo, ma di cui rinnego le forme.
Rimpiango e rifiuto l’immagine di me bambina pallida che cantavo in chiesa per la messa domenicale vestita da torta St. Honorè tra bambini che sembravano babà.
E i chierichetti erano meringhe.
Nel mio mondo caramellato anche la chiesa era gourmand e sembravano lontani i giorni in cui il seme timido dell’agnosticismo sarebbe diventato quercia.
E poi c’ erano i pranzi luculliani in cui unità di misura della bontà del piatto erano i centimetri di olio e colesterolo indistinto da cui, altezzosa e fiera, spuntava la lasagna.
Ora zie e nonne hanno perso parte del loro brio culinario; le portate si riducono, ma aumentano le dita d’olio. Una sorta di legge della compensazione.
Non di rado torno a casa e trovo, tristemente parcheggiato sul tavolo, un piatto di bietole detox, perché la sera prima ho esagerato, e un biscotto simbolico … festivo.
E un padre nostalgico di rituali abusati che, sorseggiando un vecchio cognac, sottolinea: “Oggi me lo concedo, è domenica!”.
Unica soluzione al mal di domenica sarebbe chiamare gli amici e renderla un giorno costruttivo, ma, ahimè, è un male contagioso e molesto come tigna.
Lo spirito di corporazione lascia posto all’inedia assoluta, alla morte dell’iniziativa, al trionfo della sociopatia.
E un incontro tra amici potrebbe trasformarsi in una riunione di anime affrante in stile alcoolisti anonimi o, peggio, in una fiera carnevalesca in cui sfoggi un entusiasmo irragionevole simile a quello che illumina i sorrisi dei ballerini di salsa e merengue.
E’ inutile. La domenica è senza prospettive sul presente e senza speranze nel domani.
Devo lamentarmi per forza . Non vedo l’ ora che finisca e credo che sia meglio non pensarci più, dormirci su e concludere degnamente borbottando “che palle, domani è già lunedì!”… perché la domenica non va mai bene niente.
Mai.